La felicità non è una questione privata.
Due fatti:
1- l’aereo precipitato con 150 persone a bordo per un atto suicida del pilota e
2- un post su FB di un mio amico (con tanti commenti a seguito) sulle devastanti ripercussioni che insegnanti frustrati ed infelici generano su bambini e ragazzi, nella delicata fase della loro formazione.
E poi mi vengono in mente gli uffici, sia quelli che svolgono un servizio al pubblico che no: qual’è il costo sociale dell’infelicità di tanti singoli messi insieme?
Quanto paghiamo, in termini di disservizio, quando in un ufficio, un dipartimento, un posto di lavoro non c’è collaborazione, comprensione, capacità di “andare oltre”?
Quanto siamo ingessati e immobilizzati dai confini che una mansione pone, tali da lasciare zone di limbo in cui nessuno è responsabile, nessuno agisce perché “non spetta a me fare quella telefonata”, “non è di mia competenza”…
Quanto ci costa la cultura dello scontro? È socialmente sostenibile?
Io dico di no.
Certo, la cultura del “non spetta a me” è indubbiamente foraggiata da un contorno che parla di una realtà unicamente popolata di conflitti: programmi televisivi e titoli di giornale, per come sono strutturati e per come raccontano i fatti, non fanno che alimentare la cultura dello SCONTRO, individuo contro individuo nutrendo ”il mostro dell’infelicità“. La cultura del singolo con le sue posizioni dalle quali non si deve recedere mai, sia in ambito familiare che politico, come per un fatto di orgoglio, come se si perdesse la propria identità, ci fa credere che l’individuo con le sue singole posizioni, i suoi singoli bisogni e diritti sia il paradigma della società giusta, di una società che punta al benessere… individuale, appunto.
Ecco, forse, il perché all’anno santo sulla misericordia indetto da Papa Francesco.
Ora me lo spiego meglio.
La felicità non è solo una grande e intima aspirazione dell’uomo inteso come come singolo: è una necessità collettiva, sociale “La mancanza di felicità personale è un segno della crisi, la felicità non è legata solo al singolo momento, ma alla vita buona: non si può essere veramente felici da soli perché la felicità nella sua essenza più profonda è un bene relazionale.“(L.Bruni).
E la “vita buona” è, quindi, primariamente legata alla qualità delle relazioni.
In sostanza, amare ed essere riamati: questo è il “come” e il “perché” del nostro vivere, il significato profondo del nostro agire familiare, lavorativo, politico-economico e, quando viene smarrito, produce malessere, infelicità, depressione.
Bisognerebbe forse render giustizia ai valori della rivoluzione francese che hanno forgiato il mondo moderno: libertà e uguaglianza sono però monchi della fraternità, l’unica che tiene coesa una comunità, che la identifica, non in un’idea, ma in virtù di una relazione, il senso profondo del proprio esistere.