Un vero leader sa che il futuro del proprio gruppo, del proprio paese, risiede nella capacità di allargare i propri confini mentali e programmatici, e INCLUDERE. Includere, e comprendere, inteso nell’accezione originaria (e più bella) della parola: accogliere dentro di sé.
La sopravvivenza stessa è stata determinata, nella storia dell’uomo, dalla capacità di “prender dentro”, di saper aprire i propri confini e, magnanimamente o “ob torto collo”, integrare. “Cum-prendere” è la salvezza, è il continuare ad essere, è il garantirsi l’esistenza futura.
Si, perché se guardiamo con questi occhi la realtà politica, economica e sociale che stiamo vivendo, il dramma sta nel metodo affermato e consolidato dell’esclusione.
C’è una tendenza a creare dei distinguo continui, come se differenziarsi a tutti i costi fosse sinonimo di “esistere”, mentre si assottiglia il proprio spessore esistenziale per un amore ossessivo della precisazione.
Certo, definirsi è auto affermarsi. AUTOaffermarsi. E poi? Siamo in grado di far seguire la SINTESI di coloro che coesistono, che condividono uno stesso spazio, uno stesso tempo, uno stesso partito?
Di distinguo si può morire assiderati e di solitudine.
Anche Jeremy Rifkin afferma, con forza e metodo scientifico, che la civiltà dell’empatia è l’unica speranza per evitare il collasso planetario.
Ho da tempo bandito dal mio linguaggio politico ogni parola che fa riferimento alla guerra: “stiamo facendo una battaglia”, “avversario politico”, ”stanare”, “far scoppiare”, sostituendo con “stiamo lavorando a…”, “colleghi della maggioranza”, “far emergere”, “portare a conoscenza”… perché è vero, come è scritto in un libro di duemila anni fa, “Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo”.
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